"[...]Pertanto, se è vero che il neoliberismo comporta sempre una
dimensione di immaginario (e di desiderio), allora l’unico strumento che
abbiamo per non rimanere condannati all’impotenza è di ricercare nuovi
immaginari di
resistenza[13], poiché «per far nascere il desiderio di trasformare il mondo non serve altro che la potenza di un immaginario»
[14].
Interrompere il circolo vizioso che intercorre tra neoliberismo e
neofondamentalismo, dunque, diviene possibile solo se siamo disposti a
maturare in noi stessi un’imprescindibile capacità di
disidentificazione[15] o di
disassoggettamento[16] dai regimi di verità consolidati, creando – attraverso una serie di atti
collettivi e
performativi
di rifiuto/sciopero dalle istituzioni, dai generi e dal sistema
economico – uno spazio autonomo che sia al contempo una comunità che si
sostiene e un luogo di contro-potere. Un luogo sicuro da cui
intraprendere un lavoro di teoria e prassi volto – come scrive
Gianfranco Rebucini – a liberare i soggetti «dalle configurazioni
egemoniche identitarie del presente» e di giungere a «una catarsi
rivoluzionaria del soggetto desiderante»
[17].
Questa reinvenzione delle pratiche politiche a partire da quella che Dardot e Laval chiamano la logica del
comune[18], come può, tuttavia, resistere alla potenza della
crisi
e alla logica emergenziale del suo dispositivo? Se è indubbiamente vero
che spesso dalla “crisi” può nascere la “critica”, cioè
quell’«eccedenza di senso in grado di disfare il mondo» e di dar vita a
«nuove forme di vivibilità»
[19],
c’è anche un altro aspetto da considerare e cioè che la crisi è un
formidabile strumento di governo della razionalità politica neoliberale.
La nozione di “crisi” ai nostri giorni ha perso infatti qualsiasi
carattere di transitorietà ed è giunta ormai a indicare uno stato di
incertezza permanente che si estende indefinitamente al futuro,
legittimando decisioni politiche ed economiche «che di fatto privano i
cittadini di qualsiasi possibilità di decisione»
[20].
In nome della crisi (dei debiti sovrani) si ricattano, ad esempio, i
governi democraticamente eletti – basti pensare al caso greco – ad
accettare misure di
austerity che trasferiscono risorse dai
ceti più poveri a quelli più ricchi e che mettono all’indice chiunque
cerchi di contravvenire ai programmi di flessibilizzazione del mercato
del lavoro o di tagli al welfare
[21];
in nome della crisi (del terrorismo) le liberal-democrazie europee
proclamano continuamente nuovi “stati di eccezione” e sfruttano la paura
di imminenti attentati per attuare un controllo illimitato sulla
popolazione, attraverso la sospensione delle garanzie previste dalle
Costituzioni
[22];
in nome della crisi (di immaginario) il neoliberismo beneficia ormai di
un’incondizionata legittimazione, ponendosi come l’unica e sola
modalità razionale di governo dell’esistente[23]
e riuscendo paradossalmente, nonostante l’ampio discredito di cui gode
presso ampi strati della popolazione, a rafforzarsi sempre di più[24][...]"
da Il coraggio di essere “ideologici” – di Alberto Pinto [su Effimera.org]
Note a margine de Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di Federico Zappino, ombre corte, Verona 2016
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